Quando, nel mio laboratorio o a casa, mi guardo attorno, la rappresentazione dello spazio sembra molto semplice: ci sono io e un ambiente in cui mi muovo. Per scolpire, camminare o disegnare, lo spazio che mi circonda ricopre un ruolo essenziale, ancor di più la rappresentazione che di esso fa la mia mente. Sembra dunque che l’ambiente sia fermo e sia io a spostarmi prendendo gli oggetti come riferimenti: se dovessi orientarmi, traccerei delle coordinate fisse attraverso l’ambiente come riferimenti e le userei per definire la mia posizione. Ma quando interagisco con gli oggetti lo spazio diventa un sistema dinamico, variabile, le cui coordinate sono centrate sulle varie parti del mio corpo.
Ciò che mi affascina dello spazio è che viene rappresentato sulla base delle relazioni che intercorrono tra le parti del mio corpo, l’oggetto percepito e ciò che devo fare con quest’ultimo. In sostanza ridefinisco costantemente la mia percezione dello spazio. A volte però sono i limiti del mio corpo ad essere ridefiniti, come nel momento in cui afferro un utensile per compiere un’azione a distanza: se ad esempio utilizzo una grande stecca in legno per modellare l’argilla, la stecca diventa il nuovo limite, l’estensione del mio corpo.
Ecco allora che le azioni diventano il punto cardine per la definizione del mio spazio: ciò che percepisco come spazio è prima di tutto ciò che penso di fare con ciò che mi circonda. Ancora una volta l’azione è una priorità per il mio corpo mente.